LA NOSTRA SECONDA CASA

Libera reinterpretazione delle parole di Adina Fabbro

- Lidia! Lidia! C’è il caffè! - Sì, mamma… -… Lidia! Vieni, dài, che si fredda! - Sì mamma, ho capito, arrivo...

Ogni mattina, quando ero ancora una bambina, questo scambio di battute si ripeteva due, tre, quattro volte  tra i fornelli, dove armeggiava la mamma e il letto dove dormiva nostra sorella. Nell’appartamento al secondo piano di via Berthollet, Marisa ed io eravamo già pronte da un pezzo, e aspettavamo Lidia fino all’ultimo, sperando che si alzasse in tempo per accompagnarci a scuola con la sua 500.

Ci piaceva andare con lei, e non per farci vedere a bordo di quella cara macchina beige con il tettuccio decapottabile. Quello che amavamo davvero era fare il pezzo di strada insieme: minuti preziosi in cui parlavamo tutte e tre, a volte l’una sopra l’altra, a un ritmo solo nostro e senza il controllo della mamma. Ci piaceva che la gente, fuori dalla scuola, sapesse che eravamo con nostra sorella. Che noi tre eravamo una famiglia.

Ma questo non succedeva quasi mai. Alla fine dovevamo rinunciare e andare per conto nostro, perché avevamo paura di arrivare in classe in ritardo e di venire sgridate. Così ci incamminavamo, io e Marisa sole, con l’impressione che, per quanto la giornata fosse buona, comunque mancava un pezzo.

La mattina, Lidia aveva sonno. Aveva sonno perché aveva passato la giornata in ufficio con il ragioniere, poi da lì era andata alle scuole serali, infine era tornata a casa e aveva studiato fino a tardi, con gli occhi un po’ chiusi ma caparbi, fissi sulle pagine. Era per questo che la mattina aveva sonno, e mamma la chiamava, più di una volta. Noi eravamo ancora ragazzine, avremmo voluto svegliarla e metterle fretta, ma capivamo già che non era rispettoso disturbarla. La vedevamo poco durante il giorno, e la trovavamo sempre impegnata anche la sera.

Era ancora una ragazzina e già andava in ufficio. Aveva iniziato con le scuole magistrali, ma a casa eravamo sole e dovette andare lavorare. Trovò un impiego nello studio del ragionier Giovanni. A ripensarci dopo tanto tempo, fu una vera fortuna incontrare quest’uomo. Per lei era come un padre e lui era felice di passarle il mestiere come a una figlia. Si accorse subito che mia sorella era una ragazza intelligente, seria, motivata e la spinse a perseverare, perché vedeva tutte le potenzialità nel suo carattere. La sosteneva nei momenti più importanti, come quando diede l’esame di stato per intraprendere la professione, per lavorare con lui in società. Non si dimenticava di lei neanche nei momenti di svago, tanto che la chiamava sempre per farle sapere chi aveva vinto il Giro d’Italia. Giovanni oggi avrebbe 109 anni. Non è qui per vederlo, ma sappiamo quanto sarebbe fiero dello Studio creato da mia sorella, di conoscere una realtà nata grazie alla condivisione dei suoi valori e della sua esperienza professionale.

Anche Marisa decise di seguire la strada di Lidia andando a lavorare per una commercialista e per chiudere la fila, appena cresciuta un po’, iniziai a lavorare anch’io. Feci la segretaria in un’azienda per due anni, poi nel ‘75 entrai nello Studio che Lidia stava rimettendo a nuovo.

L’atmosfera di quegli anni era incredibile, a raccontarla oggi non ci si crederebbe. Lidia ed io dividevamo la stessa stanza e le nostre scrivanie erano disposte a semicerchio. Le carte occupavano quasi tutto lo spazio disponibile. Non c’erano le calcolatrici e i conti si facevano a mano. Sulle nostre postazioni si formavano cumuli di fogli da controllare e verificare, plichi su plichi racchiusi nella carta velina. Se i nostri caratteri potevano dividerci quando tornavamo a casa, e litigavamo per un angolino d’armadio, per la pulizia di un lavandino, o per l’accensione della stufa, sul lavoro eravamo ruote perfette dello stesso ingranaggio. Lidia era l’impulso che mi guidava ed io mi fidavo ciecamente delle sue intuizioni e dei suoi metodi.

Era il 1984 quando Giovanni decise di passarle il testimone, lasciando definitivamente a Lidia la responsabilità dello Studio. Da quell’anno in poi la crescita fu continua, grazie alle tenacia di Lidia e alla operosità di tutte noi.

Fate tutto il possibile e fatelo bene, ci diceva.

La meticolosità l’aveva presa sicuramente da nostra madre. Una donna forte che si era fatta in quattro per tutte noi, senza farci mai mancare nulla. Era come un grande insieme che ci riuniva tutte, il terreno fertile in cui affondavano le nostre radici, da lei imparavamo e assorbivamo tutto. Siamo cresciute seguendo il suo esempio. Lidia e la mamma erano molto unite. A legarle non era solo l’amore, ma un sentimento indissolubile di stima reciproca. Non penso di averle mai viste litigare seriamente. O forse sì, solo una volta, per un cane.

Oh, Lidia, quanto avrebbe voluto un cane da ragazza! Ma poi con il lavoro? Chi avrebbe potuto occuparsene? Tenerlo in casa tutto il giorno, da solo? In un certo senso, alla fine, l’ebbero vinta tutte e due. Prendemmo un gatto, un micio sveglio che chiamammo Grillo. Si acciambellava spesso sulle gambe di Lidia mentre lei se ne stava seduta a leggere con un libro aperto tra le mani. E la domenica mattina, quando preparavamo l’impasto per gli gnocchi, Grillo rimaneva in attesa nella speranza di prendersi qualche avanzo, mentre noi con le nostre dita infarinate, rotolavamo salamini di pasta, tra chiacchiere e risate. Mamma è morta qualche anno fa, e ne sentiamo tanto la mancanza.

Ma le cose si sa, cambiano in fretta e del tempo che passa ti accorgi solo quando ti volti indietro notando la differenza e sentendo la malinconia che avanza.

Lidia ha poi preso un cane, quando si è sposata. Ne ha avuti diversi: prima Lady, poi Gastone, due setter agitati e dolcissimi che ci hanno lasciati qualche anno fa.

Anche l’ufficio, oggi, è cambiato. Venire a lavoro, prima, era un po’ come uscire da casa e rientrare da una porta diversa. A lavoro esisteva una famiglia, che non era seconda o meno importante della prima. Conoscevamo per nome i figli delle nostre colleghe, le loro gioie e i loro timori.

Oggi Marisa è in pensione, io anche, ma aiuto ancora Lidia che, dopo tanti anni di sacrificio e lavoro, ha cominciato a prendersi un po’ più di spazio per sé.

Il nostro lavoro sta cambiando: richiede sempre più reattività e fluidità. La burocrazia allunga tutti i tempi, la tecnologia spesso non è di aiuto e il futuro è molto più incerto rispetto a una volta.

E ora c’è anche Alessandro che ha deciso di aprire le finestre per far entrare una luce diversa e un’aria nuova, portando valori e idee orientati al futuro, che si aggiungeranno a quelli tramandati da Lidia. Un nuovo che non è sostituzione ma addizione. Sono sicura che porterà lo Studio a risultati nuovi e sempre più gratificanti.

La storia che ho voluto raccontarvi non è quella dello Studio Fabbro Martini ma è quella della Casa in cui, Lidia ed io, siamo cresciute.

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