Dal 2018 cambierà la tassazione dei dividendi percepiti da soci ed azionisti di società di capitali titolari di partecipazioni qualificate ossia, per le società non quotate in borsa, quelle che offrono diritti di voto almeno pari al 20% del capitale.
La nuova regola prevede che anche i titolari di partecipazioni qualificate subiscano una tassazione alla fonte ed a titolo definitivo d’imposta nella misura del 26% al pari di quanto già accade per i “soci non qualificati”.
Ad un cittadino non addetto ai lavori potrebbe sembrare una scelta di sistema coerente tale da rendere equo un sistema di tassazione fra titolari della medesima tipologia di reddito. Da quando è stata elevata al 26% la tassazione dei redditi di capitale (fino a non più tardi del 2011 l’aliquota era meno della metà al 12,5%) si è consentito che i titolari di partecipazioni qualificate potessero beneficiare di una tassazione di maggior favore anche nei casi di redditi particolarmente elevati (intorno ad un massimo del 23% addizionali Irpef comprese). Ma un sistema fiscale equo non è necessariamente quello in cui tutti debbano scontare la medesima tassazione.
Articolando un po’ il ragionamento spero di riuscire a spiegarmi meglio.
Le società di capitali a ristretta base sociale, e per ristretta intendo quella in cui i soci si possono contare con le dita di una sola mano, costituiscono, almeno per il momento, la regola (la normalità) dovendo escludere le public company quotate in borsa e non essendo ancora così diffuso in Italia l’equity crowdfunding per investire nelle Srl. In queste società inoltre capita sovente che i pochi Soci facciano altresì capo alla medesima famiglia: normalmente sono rappresentante e presenti in azienda la generazione dei genitori e quella dei figli (fratelli e cugini).
Queste persone oltre ad essere soci di capitali sono spesso anche coloro che amministrano l’azienda e quelli che lavorano più di qualunque altro collaboratore. I compensi per il loro lavoro non sempre transitano dal conto economico o, se compaiono sotto forma di compensi amministratori, spesso i relativi valori risultano inferiori a quello che spetterebbe loro in relazione all’impegno ed alle responsabilità di cui si fanno carico.
Non pensino male i dipendenti, ma in società del genere l’idea che i soci-lavoratori siano remunerati a fine anno con quello che avanza, tenuto conto degli investimenti in programma per l’anno dopo, è assolutamente normale al pari di quanto avviene in una più semplice società di persone o in un’associazione professionale.
L’esercizio di attività di impresa in forma di società di capitali si è diffuso massivamente solo negli ultimi 25/30 anni: prima si preferiva l’utilizzo di società personali o la semplice ditta individuale allargata eventualmente ad alcuni membri della famiglia. Da circa 20 anni anche dal punto di vista previdenziale si è preso atto di questa evoluzione culturale dei modelli con cui fare impresa introducendo, con la L. 602 del 1996, l’obbligo per i soci lavoratori di Srl di versare i contributi alla gestione artigiani o commercianti in ragione dei redditi prodotti dalla società a prescindere che questi possano o meno essere distribuiti sotto forma di dividendi.
La semplice ricostruzione esperienziale della realtà di cui sopra (mi scuso per non aver avuto modo di supportarla con un’approfondita analisi statistica dei dati) ritengo che potrebbe essere sufficiente per far ritenere che un diverso trattamento fiscale dei dividendi pagati a diverse categorie di soci potrebbe finora non essere stato tanto iniquo.
La possibilità di esporre in dichiarazione dei redditi i dividendi ha sinora consentito di beneficiare di una tassazione progressiva, capace di tener conto di oneri deducibili e detraibili anche al socio qualificato che ritrae dagli stessi utili, seppur forse in modo improprio, sia il frutto del proprio lavoro sia il premio per il capitale impiegato ed il rischio d’impresa che si assume.
Se lo scopo della modifica normativa fosse stato quello di aumentare l’equità personalmente avrei preferito prevedere l’esatto contrario e quindi istituire il regime della dichiarazione anche per i soci non qualificati con la sola eccezione dei titolari di azioni in società quotate in borsa.
Temo però che anche questa volta i ragionamenti siano stati concentrati principalmente sul livello di gettito conseguibile.