Combinazione vuole che lunedì 21 ottobre, proprio mentre si stava diffondendo in tutto il mondo la notizia dell’incendio agli ex magazzini della Cavallerizza Reale di Torino, la stessa Città mi notificava a mezzo PEC la notizia che la manifestazione di interesse presentata dal nostro Studio per il recupero ed il cambio parziale di destinazione d’uso delle ex serre e dei depositi di Villa Abegg non poteva essere presa in considerazione.
Ci sono rimasto così male nel leggere quella comunicazione ufficiale che sul momento mi son venute le lacrime agli occhi provando nel medesimo istante un grande dispiacere ed una forte rabbia. Ho provato a far finta di niente e mi sono ripromesso di dormirci sopra qualche notte sebbene, per il resto della giornata, qualcuno avrà sicuramente notato il mio volto decisamente più cupo ed imbronciato di quello che poteva provocare un semplice lunedì grigio e piovoso.
Quando te ne sei fatto una ragione, quando l’amaro in bocca è passato si torna a guardare avanti con lo stesso entusiasmo di sempre (o quasi) anche se quel davanti sarà sicuramente diverso da quello che avevi immaginato.
Racconto prima un pezzo della storia per contestualizzare una reazione che potrebbe apparire esagerata e poi cercherò di trarre qualche conclusione di interesse più generale.
Questa primavera parlando con il funzionario responsabile della manutenzione e cura di una parte delle aree verdi della Città per programmare i miei interventi di taglio dell’erba al parco di San Vito quale volontario nell’ambito del Regolamento Beni Comuni mi chiede se per caso fossi interessato a prendere in considerazione anche un’altra area verde abbandonata ed ormai chiusa al pubblico da diversi anni.
Mi piacciono le sfide e così accetto di buon grado di andare a vedere quel parco che inconsapevolmente avevo costeggiato centinaia di volte andando a correre in collina.
Ci incontriamo verso le 2 di una pausa pranzo. Arrivando in motorino trovo la panda bianca della Città ad aspettarmi. Indosso gli scarponi da montagna sotto l’abito da ufficio, tolgo la cravatta e seguo il responsabile del Comune che inizia a raccontarmi la storia camminando di buon passo e sicuro in quella sorta di bosco incantato. Costeggiamo un laghetto, mi fa vedere l’ingresso di cunicoli e vecchi passaggi segreti, entriamo in quello che resta di una romantica minuscola casetta che un tempo era destinata ad ospitare dame e signore per prendere il thè, attraversiamo una vasta area perfettamente pianeggiante che nei primi anni di gestione comunale mi racconta essere stata destinata per concerti (immagino non rock&roll!) e forse anche come cinema all’aperto nei mesi estivi. Ci arrampichiamo verso l’alto percorrendo quello che resta di viali e vialetti tra piante secolari ed un fitto sottobosco. Mi mostra orgoglioso alcune panchine del belvedere scostando le fronde degli arbusti che le ricoprono: "Erano quelle più comode e sinuose che la Città destinava esclusivamente alle zone centrali e di particolare pregio. " Posso solo immaginare la vista che si poteva scorgere da quel luogo perché la vegetazione è ormai così fitta da chiudere ogni spazio. Dall’alto "atterriamo" alla ex casa del custode che scopriamo essere stata occupata da un foglio appiccicato sulla porta d’ingresso che recita qualcosa del tipo: ”Siamo 2 extracomunitari senza una casa: per favore non mandateci via. Cercheremo di mantenerla al meglio delle nostre possibilità.” Bussiamo, ma nessuno risponde. Proviamo ad entrare, la porta si apre ma non c’è nessuno, probabilmente già da diverso tempo. Rimane solo tanto disordine. Proseguiamo lungo il viale asfaltato per arrivare ad un’area di parcheggio in prossimità delle vecchie serre ed appena le vedo, nella mia testa iniziano ad accendersi una lampadina dietro l’altra. Formano una sorta di L, hanno la base in muratura, pareti e copertura in vetro sebbene sopra siano state montate più di recente delle lamiere probabilmente per evitare che piovesse dentro. Entriamo e le attraversiamo per la loro lunghezza: non sono molto alte, strette e lunghe con al centro ancora i banconi riscaldati che ospitavano migliaia di vasetti dando loro da bere e da mangiare. Sotto le serre invece ci sono degli stanzoni con grossi portoni in legno alti più di tre metri che fungevano da magazzini. Di fronte c’è un basso fabbricato che ospitava una paio di stanze di servizio, un bagnetto ed ancora una tettoia ed un’autorimessa.
Mi piacciono le cose difficili, ma non quelle impossibili dico sorridendo al bravo funzionario alla fine di quell’originale pausa pranzo. Il recupero e poi il mantenimento di quest’area a mio avviso richiede non solo un sacco di denaro inizialmente, ma anche una presenza ed un impegno costanti e continuativi per consentirne la fruizione in sicurezza da parte del pubblico.
Che ne dice se trasformassi i magazzini in uffici, le serre in luminosissime sale riunioni e portassi qui il tutto il nostro studio professionale? Potremmo concepire di convertire la vecchia orangerie in un piccolo spazio di coworking per startupper e freelance, ricavare da qualche parte uno spogliatoio ed una doccia e, lasciando qui trattore ed attrezzature agricole e forestali, potremmo tutti trascorrere le nostre pause pranzo facendo giardinaggio invece che ginnastica! Tutte le mattine potremmo aprire i cancelli alle 8,30 e richiuderli la sera tornando a casa, il parco poco per volta riprenderebbe vita e chissà che non si riescano a sviluppare nuove idee e trovare delle sinergie con la confinante Compagnia di San Paolo.
Perché no mi fa lui, ma andando oltre l’ambito delle sue competenze: ti metto in contatto con i colleghi del patrimonio e provate a vedere se si riesce a trovare una soluzione.
Si attiva, mi attivo. Prendo contatto e dopo un paio di passaggi arrivo dalla persona giusta. Mi riceve, mi ascolta, pare entusiasmarsi anche lei e ci congediamo con il mio impegno di formalizzare un progetto tramite una ufficiale manifestazione di interesse.
Ricerco, mi documento, approfondisco la storia di villa Abegg, immagino il seguito del suo Parco Alto.
La villa venne realizzata nella seconda metà del 1600 dalla famiglia reale, rimaneggiata e ceduta in epoche successive ed in ultimo appartenuta ad un imprenditore tessile di origini svizzere chiamato Wermer Abegg da cui oggi prende il nome. Questi, grande appassionato d’arte e mecenate, lasciò con la sua morte del 1984 la villa ed il suo vastissimo parco alla Città di Torino pianificando e definendo fin da allora che il fabbricato e la parte di giardino attigua fossero dati in concessione alla Compagnia di San Paolo in modo da aver la ragionevole certezza che, almeno per 99 anni, avessero potuto esserci le risorse per mantenere un immobile tanto pregiato.
La Compagnia di San Paolo non si è fatta però carico dei circa 10 ettari del parco alto che ormai conosciamo bene e dei fabbricati minori sia per dimensioni che per pregio architettonico. Il Comune all’inizio era riuscito non solo a garantire al pubblico la fruizione del parco e dei suoi belvedere, ma ad impiegare anche il complesso di fabbricati di servizio destinandovi una squadra di giardinieri-floricoltori che hanno coltivato per anni piante e fiori che venivano regolarmente trapiantate in vasi ed aiuole della città. Poi, a seguito del trasferimento delle coltivazioni in un unico comparto florovivaistico più grande ed efficiente e della successiva morte del custode del parco i cancelli vennero definitivamente chiusi con catene e lucchetti.
La manifestazione d’interesse formulata, oltre a quanto immaginato in quella pausa pranzo di fine primavera, prevedeva anche di realizzare un orto giardino per scopi didattici, di provare ad organizzare nel parco un festival internazionale di Land Art il tutto ovviamente non da soli, ma coinvolgendo ed aggregando almeno un’impresa florovivaistica e qualche associazione di appassionati giardinieri della domenica. Era rimasta invece nella penna l'idea di inserire qualche pannello fotovoltaico sul tetto delle serre e quella di installare un piccolo impianto di energia elettrica e termica da alimentare con cippato di legna a KmZero.
Tutto molto bello, tutti entusiasti, ma l’urbanistica (il terzo ufficio tecnico della città con cui ci confrontiamo), in base all’attuale Piano Regolatore, dà parere negativo alla possibilità di destinare anche solo temporaneamente ed anche solo in parte quei locali ad uso professionale .
Per quanto mi riguarda la storia finisce qui.
Le riflessioni conclusive di carattere generale sono poi soltanto tre.
Fino a quando continueremo ad essere schiavi di lacci e di lacciuoli, della burocrazia e dell’impianto normativo che noi stessi abbiamo creato non solo non andremo da nessuna parte, ma temo che poco per volta sprofonderemo nelle nostre sabbie mobili
Non è nemmeno lontanamente immaginabile che sia preferibile lo stato di abbandono, di degrado e magari anche di occupazione abusiva piuttosto che provare a trovare, possibilmente in tempi non biblici, delle soluzioni ragionevoli (economicamente sostenibili e non spregiudicate giuridicamente) che consentano di trovare un punto d’intesa fra interessi pubblici e privati.
La perdita totale di fiducia verso il prossimo, il NO facile e diffuso, l’incauto desiderio di voler normare tutto, la progressiva incapacità di distinguere cosa e chi sia più o meno meritevole, la paura di sbagliare, di assumersi delle responsabilità, di essere giudicati da un sistema verso cui si nutrono sempre più perplessità sono piaghe del nostro tessuto sociale che logorano la capacità creativa di un Paese pieno persone eccezionali, le inacidiscono sempre di più e contribuiscono a far sprecare una quantità impressionante di energie positive.
Preciso che il verde brillante della foto è un'eccezione alla regola delle immagini in bianco e nero che ci siamo dati.