“Fé fö ed so bosc”: LIBERA INTERPRETAZIONE DEL FRIDAY 4 FUTURE

DOMANDA N. 1 - L’immagine ritrae un angolo di bosco le cui piante sono state segnate dai guardia parco prima di procedere al relativo taglio. Secondo voi gli alberi con il numero sono quelli che è consentito abbattere o quelli da salvaguardare?

RISPOSTA N. 1 - Non faccio attendere la risposta dicendo subito che la foto è stata scattata a stagione di taglio ultimata un paio di giorni dopo il venerdì in cui Greta Thunberg e milioni di altri giovanissimi ragazzi e ragazze manifestavano nelle piazze di mezzo mondo per chiedere al mondo degli adulti e degli anziani di fare di più per salvaguardare il nostro pianeta terra prima che i cambiamenti climatici in atto diventino irreversibili e fatali per i nostri nipoti se non già per noi. Le piante numerate dunque sono quelle “sopravvissute” e che per almeno i prossimi 20/25 anni non avranno da temere scure o motosega, sebbene probabilmente ad un occhio inesperto di tecniche forestali sarebbe potuto sembrare l’esatto contrario.

DOMANDA N. 2 - Perché un commercialista dovrebbe parlare di tecniche forestali, di alberi e di Greta Thunberg?

RISPOSTA N. 2 – Anche in questo caso la risposta potrebbe apparire contro intuitiva. Sicuramente è complice una certa predisposizione/sensibilità verso l’ambiente, il verde in generale e probabilmente il commercialista subisce anche il fascino romantico delle espressioni di una natura selvatica e autentica, ma il motivo di fondo è che sono convinto che la problematica ambientale sollevata dai ragazzi del Friday 4 Future sia strettamente collegata a questioni economiche, all’evoluzione tecnologica ed alle capacità produttive delle imprese, alla ricchezza delle persone, alla loro distribuzione sulla Terra ed alle loro abitudini e possibilità di consumo. Inoltre in un contesto del genere le politiche fiscali potrebbero rappresentare concreti strumenti per provare ad aggiustare il tiro e correggere la miopia intrinseca nelle scelte economiche di consumatori ed imprese.

Ogni volta che nella domanda c’è di mezzo un perché, la risposta necessita sempre di qualche ulteriore ragionamento per essere sviscerata. Di seguito proverò ad articolare il discorso raccontando la storia vera e molto personale (quindi di per sé molto poco interessante e generalizzabile) del taglio di quel piccolo angolo di bosco in parte raffigurato nell’immagine di cui sopra.

Non so se sia conseguenza del cambio climatico, ma è palese, almeno per quanto riguarda l'angolo di mondo compreso tra Superga e Torino, che quest’anno l’inverno è stato particolarmente mite e la primavera ha anticipato i suoi tempi. Da un paio di settimane la linfa ha già ripreso a scorrere abbondante lungo le arterie degli alberi mentre ciclamini selvatici, violette, primule e pervinche hanno portato nuove macchie di colore nel marrone e nel bruno del sottobosco.

Sebbene le normative forestali consentirebbero ancora un paio di settimane per completare i lavori nel bosco ho deciso che con questa domenica si chiudesse la nostra famigliare stagione di taglio ed esbosco. Abbiamo già fatto parecchio lavoro e le cataste di legna sono più che sufficienti per il prossimo inverno: non c’è necessità di far lacrimare oltremisura ulteriori amici alberi.

Da quando ci siamo trasferiti in campagna (siamo all’epoca dei miei primi anni di scuola elementare) abbiamo iniziato ad integrare significativamente il monotono riscaldamento dei termosifoni con l’allegro e più intenso calore delle stufe a legna. Per anni abbiamo acquistato decine di quintali di ceppetti di quercia, castagno, robinia, ciliegio selvatico dagli agricoltori della zona che in inverno si dedicavano alla silvicoltura, ma la mia laurea in economia e commercio e soprattutto l’inizio della mia esperienza professionale da commercialista hanno enormemente rafforzato il mio legame con le piante e con il bosco.

Tralascio le ragioni che mi indussero ad esprimere ai vari parenti il desiderio di festeggiare e ricordare quel goliardico traguardo volante con un giovane esemplare di faggio rosso. Nonostante lo stupore e probabilmente anche il disappunto di qualcuno dei parenti mi accontentarono. Più o meno in questo periodo di quasi 20 anni fa uno splendido faggio da seme allevato in vaso per circa 25 anni fu messo a dimora in piena terra nella medesima zona del giardino che aveva ospitato fino qualche tempo prima, per oltre un secolo, una maestosa pianta di amarene che ad aprile si caricava di un’enorme nuvola di petali bianchi e dai cui rami pendeva il piattello tondo di un’altalena monocorda.

A distanza di pochi mesi arrivò poi quel pomeriggio in cui da giovane praticante commercialista trovai il coraggio e la sfacciataggine di rispondere ad un cliente che mi chiedeva informazioni circa gli aspetti fiscali conseguenti alla sua intenzione di donare all’allora parco della Collina di Superga diversi piccoli appezzamenti di bosco ereditati dalla moglie originaria di quelle parti di collina. Mi disse che qualche anno prima uno di questi boschi era stato colpito da un incendio e che temeva le conseguenze derivanti dal fatto che tutti i terreni erano capitati all’interno dell’area divenuta Parco Naturale. Senza nemmeno immaginare cosa significasse avere un bosco all’interno di un parco, senza sapere dove fossero e che superficie avessero tali terreni gli risposi entusiasta: “Guardi…per donarli al Parco, se me li vende ad un prezzo ragionevole, li compro volentieri e così lei risparmia anche le spese dell’atto notarile!”

A questa notizia genitori, fidanzata e parenti vari, ad eccezione di mio zio Fausto, espressero molto di più di semplice disappunto. Chiesi quindi consiglio a Pino, l’agricoltore dal genio e dalla versatilità leonardeschi, all’epoca vicino di casa, maestro di vita ed amico sincero. Chiesi al cliente le planimetrie delle particelle e con Pino andammo a fare un giro in quella più grande di oltre 3 ettari. Insieme ne percorremmo il perimetro. Nonostante i suoi oltre 80 anni, la pendenza ed il fondo scivoloso, Pino si muoveva con agilità e confidenza tra gli alberi di quel bosco. Aveva con sé un falcetto per scansare rami, tagliare rovi, piantarlo in stile alpinistico nel terreno più scosceso. Quando tornammo alla macchina dopo oltre un’ora di cammino esplorativo mi disse in piemontese stretto:

“E’ proprio un bel bosco, è esposto a sud: cresce lentamente, ma il suo legno scalda il doppio…non avrai più freddo per il resto dei tuoi giorni!” e poi aggiunse “Tut n’aut afè fé fö ed so bosc”. E’ tutta un’altra cosa fare fuoco della propria legna!

E aveva proprio ragione.

Impiegai buona parte dei risparmi che avevo accantonato durante il servizio militare sognando di fare un giorno il giro del mondo e comprai i boschi senza nemmeno andare a vedere tutti gli altri appezzamenti sparsi in giro per le colline di casa…dopo poco impiegai il resto dei risparmi per comprare un trattore, mio padre mi regalò una motosega e Pino mi accompagnò ancora per diversi anni in quel bosco, felice di trasferirmi la sua esperienza in modo che imparassi a rispettarlo ed a prendermene cura. Anche Pino sebbene fosse di una tempra d’altri tempi ad un certo punto dovette rassegnarsi a ritirarsi in una casa di riposo. Ogni volta che lo andavo a trovare ci teneva a sapere in che condizioni fosse il nostro bosco ed appena iniziavo a parlare i suoi occhi si facevano lucidi.

Nel bosco “mi sento” proprio bene ed oggi, per l’ultima volta di quest’inverno, ci sono tornato a piedi, senza trattore, senza motoseghe e senza rumore. Ho portato con me esclusivamente un falcetto, una zappa ed un rastrello per sfrondare e raccogliere le ultime ramaglie, dare un’ordinata generale alla zona di accatastamento e ripassare tutti i canali di scolo della strada. Tornato a casa soddisfatto, ho accesso la stufa con la legna frutto della nostra fatica e nel ricordare le parole di Pino mi è venuto spontaneo iniziare a scrivere per raccontare questa storia ai milioni di ragazzi che venerdì 15 marzo 2019 sono scegli nelle piazze di diverse parti del mondo per ricordarci che non c’è più tempo da perdere per prenderci cura e cercare di salvare il nostro pianeta TERRA.

I giovanissimi manifestanti hanno perfettamente coscienza che quella dell’ambiente sia una questione globale, ma il problema grosso è che non tutti al mondo abbiamo condizioni sociali e culturali adeguate per comprenderne l’effettiva gravità e soprattutto non tutti ci troviamo nella condizione economica per poter accettare di fare qualche ulteriore sacrificio o semplicemente adottare qualche comportamento più “green” ammesso che ci si metta d’accordo su quali siano. La parte del mondo che oggi urla a più gran voce l’urgenza del problema ambientale è quella più ricca e benestante (ad eccezione degli USA che da qualche tempo hanno preferito essere coerenti e smetterla di predicare bene e razzolare male). E’ quella che è diventata ricca inquinando negli ultimi due secoli come non mai e che oggi chiede a popolazioni ben più numerose e povere delle nostre di essere comprensive e lungimiranti per aiutarci a provare a mettere una toppa prima che sia troppo tardi.

Tornando alla storia del bosco quando Pino ha assistito per la prima ed unica volta in vita sua la “forestale” mentre selezionava le piante da mantenere seguendo le norme di salvaguardia tipiche di un Parco Naturale gli ha esplicitamente chiesto se erano sicuri di quello che stavano facendo. Ma in cuor suo avrebbe voluto fargli osservazioni ben più severe. Pino era nato nel 1918 ed è cresciuto abbattendo le piante con la scure, caricandosi a spalla il frutto del loro lavoro che nella migliore delle ipotesi veniva trasportato su carri trainati da muli o cavalli. Ha poi vissuto e goduto in termini di minor fatica profusa e di maggior resa del proprio lavoro la rivoluzione portata dai trattori e dalle motoseghe. Quelli della sua generazione avevano imparato dai propri padri che a loro volta lo avevano imparato dai prorpi anziani che un bosco da legna da ardere si tagliava ogni 15/20, massimo 25 anni e che per ogni tornata di taglio ogni 10 piante se ne doveva lasciare 1 oltre a qualche giovane esemplare. La frequenza relativamente ravvicinata del taglio era per evitare che le piante diventassero troppo grosse e gravose da lavorare a mano e la "regola della decima" era giustificata dal fatto che l’appezzamento disboscato avrebbe goduto di un ricaccio tanto più veloce ed efficace quanta più luce avesse preso.

Oggi le norme forestali all’interno di un parco prevedono che venga mantenuto un livello di copertura del suolo pari ad almeno i 2/3 della superficie. Si lasciano piante mature (contrassegnate da un semplice numero progressivo), ma anche piante anziane ad “invecchiamento indefinito” (contrassegnate da una I) e persino tronchi mezzi marci a terra o secchi in piedi per favorire la biodiversità (contrassegnate da una B) mediante l’insediamento di insetti, funghi e muschi che a loro volta alimentano uccelli e chissà quanto altro.

A fronte di una selezione tanto restrittiva delle piante da poter tagliare il “povero” boscaiolo si trova spesso anche in concrete difficoltà sia nella fase di abbattimento che in quella di esbosco. Le piante da poter abbattere sovente si incastrano tra i rami di quelle da salvaguardare e per poterle portare trainare con il verricello alla zona di taglio e sramatura spesso bisogna essere abili nell’aggirare quelle superstiti per evitare di lacerarle e ferirle con lo sfregamento. Mi è capitato in passato di proporre a dei boscaioli professionisti se fossero stati interessati ad effettuare il taglio della parte di bosco che mi era stata segnata a fronte di una minima parte, a loro discrezione, delle piante che avrebbero potuto ricavare e mi è stato seccamente risposto che loro non avevano tempo da perdere dopo aver fatto il sopralluogo insieme.

Probabilmente avevano ragione loro. Io sono felice di prendermi cura del mio bosco nel pieno rispetto delle ferree regole forestali, di fare una gran fatica la domenica nonostante trattore e motosega, di accettare il rischio concreto di farmi male e pure di subire dei danni patrimoniali (scelta antieconomica) semplicemente perché quella legna per quanto apprezzata e goduta non è essenziale alla nostra sopravvivenza. Durante la settimana io e mia moglie andiamo via di casa presto al mattino e torniamo tardi la sera e la stufa per quanto tecnologicamente evoluta nei sistemi di combustione e riciclo dei gas e dei fumi non è ancora in grado di prendersi i ceppetti da sola. Così l’allegro scoppiettio del fuoco si limita a farci compagnia nelle serate più fredde dell’inverno e durante i fine settimana trascorsi a casa.

Tutto questo per concludere suggerendo ai ragazzi del F4F che le uniche soluzioni valide ed efficaci per provare a curare le malattie del nostro amato pianeta Terra saranno quelle anche economicamente sostenibili ed in tutto ciò il progresso tecnologico giocherà un ruolo fondamentale.

La terra è il nostro bosco: prendiamocene cura!

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