A quanto pare sono goloso.
E’ fine estate: sono di ritorno da una corsetta lungo una bella spiaggia incontaminata con alcuni amici. Mi aspetterebbe un tuffo rinfrescante ed una birretta di fronte al tramonto se non avessi notato la presenza di alcune pesche di vigna tra gli arbusti che crescono selvaggiamente sul bordo di una vecchia ferrovia a scartamento ridotto.
Attratto da quei frutti dolci e succosi che hanno dissetato tanti pomeriggi della mia infanzia mi scuso con gli amici impegnandomi a raggiungeli a brevissimo direttamente sul terrazzo del chioschetto in riva al mare.
SALTO INDIETRO IN UN TEMPO CON MENO VELENI
Pino aveva piantato alcuni alberi di pesche settembrine proprio lungo i filari delle sue vigne. Raccontava che queste varietà erano molto più selvatiche del pesco estivo e necessitavano di minori cure. Inoltre era convinto che le radici dei peschi intrecciandosi con quelle della vigna sarebbero state capaci di donare al suo vino un po’ del loro profumo per il naso ed il ricordo del loro sapore in bocca. Ogni volta che andavo a “rubare” un paio di quelle pesche toglievo rigorosamente la buccia con un lavorio combinato di denti e dita. Non resistevo a pelarla tutta prima di morderla e quindi, mano a mano che riuscivo a liberare una parte sufficientemente larga per appoggiarci le labbra, affondavo i denti nella polpa bianca striata di rosa. Arrivavo a succhiarne persino l’ossicino: sapeva di mandorla.
Un giorno Pino mi colse in “flagranza di reato” e mi sgrido severamente. Non perché gli stessi togliendo qualche frutto al suo raccolto, ma perchè mi aveva visto mangiarle con la buccia. Giustificò la sua sfuriata precisando che quella pelle era troppo coriacea e pelosa per essere digerita. Quando sono cresciuto ho capito che il vero motivo era che quella buccia portava con sé dosi di zolfo, verderame e qualche altro veleno che sarebbe stato decisamente meglio non assimilare.
GETTARE IL CUORE OLTRE L'OSTACOLO
Torno ad inseguire le pesche lungo la ferrovia a scartamento ridotto. Le prime che sono riuscito a raggiungere allungando le mani tra gli arbusti mi sono sembrate ancora durette e troppo acide per essere apprezzate.
Proseguo così alla ricerca di qualche pianta meglio esposta al sole, ma incontro arbusti con spine e rami rinsecchiti sempre più pungenti. Ad un certo punto finalmente la vegetazione si fa meno fitta e mi ritrovo con le rotaie del treno che corrono in mezzo alle corsie di una sorta di autostrada dove le macchine, sfrecciandomi vicino, mi fanno traballare tanto corrono veloci.
Proseguo non più alla ricerca della pesca migliore, ma solo per cercare di togliermi da una situazione di disagio e di oggettivo pericolo.
Ad un certo punto il cordolo che separa l’asfalto della strada dalla ghiaia della ferrovia viene meno e si presenta un vastissimo incrocio. L’asfalto di più strade si interseca sulle rotaie, ma non ci sono ne semafori, ne passaggi a livello. Non passano più molte auto, ma quelle che arrivano sembrano non preoccuparsi minimamente dell'incrocio e continuano a sfrecciare, se possibile ancor più veloci, del tutto incuranti della mia presenza aggrappata all’ultimo angolo del cordolo spartitraffico.
Finalmente tolgo lo sguardo dall’asfalto e, alzando la testa, noto di fronte a me una strada più piccola che sale in mezzo a due file di palazzi di 3 o 4 piani. Ho trovato una via di fuga: decido di attraversare le rotaie e l’intero incrocio. Nel prepararmi allo scatto giro più volte la testa e tutto il corpo in ogni direzione per capire quando fosse il momento giusto per partire. Sembrano non esserci auto in arrivo, ma quello che mi fa più paura è attraversare le rotaie nonostante fino a quel momento non fossero mai passati ne treni, ne tram…
Mi butto e inizio a correre, ma la corsa non è dritta verso la stradina in salita, ma lenta e faticosa ostacolata da folate di vento trasversale e dalla continua necessità di voltarsi alle spalle per vedere l’arrivo di una qualche autovettura e del fantomatico treno. Il rumore di sottofondo del vento copre ogni altro suono e rimane solo la vista per accorgersi dei pericoli.
Arrivo finalmente alle prime case della strada in salita, ma scopro che non ci sono marciapiedi, nessuna rientranza, nessuna porta aperta, nessun negozio in cui rifugiarsi dal temporale in arrivo.
Il vento, incanalato tra i palazzi della via, si è fatto ancor più forte. Alzo nuovamente lo sguardo e vedo un angolo di cielo azzurro in punta alla salita, ma è attraversato da grandi nuvoloni color panna che però temo possano portare con sé poca dolcezza.
PRESA DI COSCIENZA
Mi sveglio dall’incubo e, ancora frastornato dal rumore del vento, corro in bagno in preda ad un attacco di mal di pancia.
Faccio mente locale chiedendomi il perché di un sonno tanto travagliato e di un risveglio persino peggiore e subito mi viene in mente l’orecchia di elefante (da intendersi come cotoletta alla milanese con l’osso, opportunamente schiacciata tanto da diventare talmente grande da uscire da un piatto già di formato extralarge) gustata a pranzo del giorno prima con un cliente e un revisore.
Si era discusso di come trattare alcune poste di bilancio e le visioni erano state diverse. Interessi contrapposti e principi contabili hanno però trovato una condivisa chiave di lettura di fronte ad un buon bicchiere di vino secondo usi e consuetudini antichi e semplici ma di indubbia efficacia e di cui però abbiamo perso l'abitudine barricati dietro i nostri monitor.
Sono stato l’unico ad ordinare la milanese: avevo voglia di fritto, di sapore, di croccantezza, di una coccola per un altro anno appena compiuto. Sebbene abbia offerto abbondanti assaggi della mia "orecchia" agli altri commensali non sono riuscito a finirla.
INCAPACI DI FERMARSI PRIMA
Nonostante dopo circa metà bistecca fossi piuttosto consapevole di iniziare a farmi seriamente male, ho proseguito in un mix fatale di golosità e sensi di colpa. Ancora una volta l'infanzia ritorna con l'insegnamento di mia nonna volto a non sprecare il cibo che ci veniva offerto in abbondanza sulle nostre tavole. Questo in segno di rispetto per il lavoro e la fatica di chi lo aveva prodotto e verso coloro le cui tavole erano necessariamente meno ricche.
A distanza di una settimana mi sono ritrovato con due imprenditori e soci da una vita, seduto ad un tavolo imbandito solo con quella hanno simbolicamente definito una “tovaglia di pace”. Non c'era ne la carne, ne il vino ma anche loro non riescono a smettere di mangiare l'enorme milanese e continuano ad addentare le pesche con tanto di buccia.
A dispetto di qualsiasi normativa volta a prevenire lo stato di crisi delle imprese e della fredda e distaccata (fino ad un certo punto) visione di noi consulenti per evitare di farle scivolare in condizioni irreversibili, la testa e il cuore di persone innamorate della propria azienda, a cui sovente hanno dedicato tutto quello che avevano per decine di anni, fanno molta fatica ad accettare che il connubio professionale si sia rotto e che quello che stanno facendo ormai non sia più sufficiente per consentire non solo la prosperità vissuta in anni ormai lontani, ma nemmeno più la semplice sopravvivenza.
Temo che in alcuni settori l’eredità del COVID quest’anno si farà nuovamente sentire e il “risveglio”, anche in questo caso, sarà agitato e non certo privo di turbolenze.