QUESTIONE DI MILLIMETRI

Quando è successo l’incidente mi sentivo pieno di energie, forte, felice di vedere la mia mogliettina distesa al sole su un fresco prato di montagna e Maya intenta a colorare i suoi disegni vicino alla fontana di Desertes. Entusiasta di aver appena ricevuto, dopo due anni di ricerca in punta di piedi, il consenso dal proprietario di un vecchio campo agricolo (incolto da oltre mezzo secolo) proprio all’ingresso della borgata nei pressi della vecchia scuola e della chiesa, per poter impiantare il mio primo giardino sperimentale di erbe officinali d’alta quota. Era avvenuto tutto con una semplice stretta di mano, con poche parole, il sorriso e l’entusiasmo di un sognatore (forse due, sebbene di due generazioni diverse) che nel suo piccolo, nonostante tutto, è ancora convinto di poter vestire i sogni di realtà e la realtà di sogni (cit. Riccardo Gualino) per cercare di dare un senso che non sia esclusivamente personale a quel meraviglioso soffio di vita che ci viene concesso.

Dopo aver ripulito nei giorni precedenti le vecchie mulattiere ed i ripidi sentieri che portavano a quello che fino all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso è stato il capoluogo di un Comune d’Italia, arrivato ad ospitare ed a dar da vivere ad oltre 300 persone sulle sue pendici ad oltre 1600 metri di quota al confine con la Francia, mi rimanevano poche passate per completare il taglio dell’erba della scarpata compresa tra la strada carrabile e la grande baita.

La parte più ripida era stata ripulita con il decespugliatore, mentre dove la pendenza si riduce ed anche l’erba cresce più vigorosa ho pensato di farmi aiutare da un attrezzo un po’ più robusto: un potente motocoltivatore a cui avevo collegato una trinciasarmenti. Per chi non la conoscesse è qualcosa tipo quello che montano sul braccio mobile i trattori che fanno la manutenzione dei bordi stradali. Ad un rullo centrale che funge da rotore vengono imbullonate serie di coltelli parallele della forma di due J che si toccano la schiena e che ruotando ad alta velocità trinciano nel vero senso della parola tutto ciò che incontrano sul loro cammino a filo del terreno senza mai toccarlo. Ovviamente se questi battono contro un masso, un tronco spesso o un cumulo di terra di dimensioni importanti si piegano o addirittura interviene la frizione che automaticamente blocca il rotore per evitare di spaccare tutto e rischiare si farsi male. Se però capita, come nel mio caso, che i coltelli incontrino un pezzo di fil di ferro nascosto da tempi immemori nell’erba alta più di un metro la forza centrifuga è tale che lo avvolgono su di sé incominciando a far schizzare terra, pietre e ogni cosa che incontrano sopra il suolo. Il rotore è dotato di una robusta carena in acciaio che trattiene e spinge verso il basso ogni frammento proteggendo l’operatore e chiunque incautamente dovesse trovarsi nei paraggi. Nonostante tutto ciò è capitato che qualche sasso o pezzo di legno sia sfuggito alle protezioni e mi abbia colpito alla gola con una discreta violenza. Il tutto è avvenuto in una frazione di secondo senza che nemmeno potessi accorgermene. Dopo essere stato colpito ho lasciato i comandi e l’attrezzo si è immediatamente arrestato. Portando la mano alla gola, in un attimo me la sono vista grondante di sangue. Spaventato ho urlato aiuto con tutto il fiato che avevo in corpo, ma ero troppo lontano perché qualcuno potesse sentire e nel contempo ho incominciato a correre lungo quel pendio in salita per avvicinarmi alle poche persone che era sicuro esser nascoste da qualche parte nel villaggio in quello splendido primo pomeriggio metà agosto. Volevo correre più forte, ma mi trattenevo per evitare di alzare troppo la frequenza e la pressione sanguigna. Ho tolto la camicia e me la sono appallottolata contro la ferita spingendo con tutta la forza che potevo. Sono finalmente arrivato alla fontana dove c’erano la mamma e Maya che, appena mi ha visto, è istintivamente scoppiata a piangere (scusami tanto bimba mia) e più in là ho incrociato lo sguardo di un paio di anziani del paese che stavano seduti a contarsela ed a prendere il fresco dopo pranzo. Mi dirigo verso di loro e quando sto per raggiungerli, senza parlare, mi scopro il tampone della camicia e mi siedo sulla loro panchina proprio sotto una finestra che, il caso vuole, portasse ancora la scritta “INFERMERIA” sbiadita dai tempi della grande guerra. In men che non si dica scattano sull’attenti e si attivano ognuno a modo suo. La fortuna ha voluto che una coppia di medici toscani fosse ospite di una di quelle vecchie baite che presto mi ha raggiunto e con un paio di garze e 10 minuti di una pressione sul collo come mai avevo sentito prima mi ha fermato l’emorragia.

Respiravo bene, non ho mai perso conoscenza e quando ho sentito il medico di cui non conosco nemmeno il nome che con il suo simpatico accento toscano mi ha detto che non era stata lesionata alcuna arteria mi sono leggermente tranquillizzato ed ho ritrovato nuova energia. Fermato il sangue vengo medicato e bendato. Faccio fatica a deglutire ed ho un dolore alla gola ed al collo come se avessi preso una gran botta, ma sto bene e tutti mi continuano a ripetere che sono stato molto fortunato. Nonostante da una prima superficiale visita i medici riescano a diagnosticare che il peggio è passato, mi invitano ad andare quanto prima al pronto soccorso per verificare che non ci siano lesioni o complicazioni interne che richiedono necessariamente qualche esame strumentale.

A Desertes un’ambulanza fa fatica ad arrivare ed anche l’elicottero avrebbe difficoltà a trovare una piazzola in piano sufficientemente larga per atterrare. Mi sento bene e con complici l’adrenalina e la mia mogliettina decidiamo di scendere in auto fino a Torino. La coppia di amici che dovevamo ospitare a cena è a pochi km di distanza e, prima ancora che si arrivi sulla strada asfaltata, Francesco è già al bivio ad aspettarci per prendersi cura di Maya e portarla a giocare con Dante e Ruben.

Arrivati al pronto soccorso del centro traumatologico, dopo la consueta attesa per l’accettazione ed una prima superficiale visita mi dirottano a quello delle Città della Salute e della Scienza dove ci sono migliori competenze per trattare la mia gola. Dopo una serie di esami tutt’altro che piacevoli alle 10 di sera decidono di ricoverarmi per la presenza di un corpo estraneo conficcato tra l’esofago ed una vertebra cervicale.

Federica scoppia a piangere in ascensore mentre mi accompagna in reparto: scusami anche tu mogliettina mia. Torna in montagna per raggiungere Maya che, vista l’ora, trascorrerà però la notte nel sacco a pelo insieme ai suoi amici nel sottotetto della loro baita.

Il giorno dopo mi fanno ulteriori esami per verificare meglio che non ci siano lesioni dell’esofago. Sono molto fortunato e quindi posso sospendere l’alimentazione endovenosa e riprendere a mangiare e bere con la mia bocca sebbene solo budini e pappette cremose. Trascorre anche la domenica e con il lunedì rientra in servizio un chirurgo esperto di gola. Quando, dopo avermi visitato, mi descrive e mostra le lastre del mio collo da cui emerge chiaramente il frammento da 6,5 mm ed il percorso che ha fatto batto i denti e mi tremano le gambe nel vero senso della parola.

Quella scheggia impazzita era entrata sul lato sinistro della mia gola con la forza cinetica di vero e proprio proiettile e, dopo aver rimbalzato sull’osso della sesta vertebra cervicale, si era fermata a pochi millimetri dall’esofago e dal nervo ricorrente che comanda le corde vocali. Il percorso era avvenuto sfiorando esclusivamente la tiroide (che aveva provocato il forte sanguinamento) ma senza toccare i due enormi vasi sanguigni (carotide e giugulare) che passano da quelle parti e senza ledere niente di quell’impressionante quantità di parti nobili e vitali che ho scoperto passare nella manciata di centimetri del nostro collo.

Ero già convinto di essere stato molto fortunato nell'incontrare i medici toscani che mi hanno soccorso, ma dopo quello che mi era stato spiegato era chiaro che la fortuna aveva giocato ancora prima un ruolo fondamentale nel farmi rimanere in vita.

Durante quella visita ho firmato tremolante per autorizzare un chirurgo mai visto prima e la sua squadra ad aprirmi il collo per cercare di estrarre il corpo estraneo (un ago in un pagliaio) che non si sapeva esattamente cosa fosse, che natura avesse e quale fosse la probabilità che nel tempo scatenasse infezioni o altre gravi conseguenze. Dopo aver maturato quella consapevolezza e preso quella decisione ho passato alcune notti dormendo molto poco.

Sebbene mi sforzi ancora un po’ per tornare alla “normalità”, anche l’intervento, tutt’altro che facile, è andato bene ed ora mi ritrovo a raccontare questa storia, molto personale e molto poco professionale, nella speranza che possa, a vario titolo, essere utile a qualcuno anche se non vissuta direttamente.

Ho letto da qualche parte, ma non ricordo l’autore, che la scrittura riunisce in sé due “folli” gioie: quella di parlare da solo e quella parlare ad una folla.

All’inizio di queste vacanze mi ero ripromesso di parlare dei valori che stanno alla base di Starboost ed invece mi sono ritrovato a vivere un’esperienza che mi ha permesso di scoprirne altri che senza esplicitarli lascio a ciascun lettore il compito di provare ad immaginare.

In chiusura mi permetto di richiamare alcune righe lette per pura combinazione proprio dopo aver firmato per essere operato. Sono tratte dal libro “Il tempo dei nuovi eroi” di Oscar di Montigny che avevo iniziato a leggere e sottolineare all’inizio dell'estate, ma che dopo le righe seguenti ho fatto fatica a proseguire.

“La dea Fortuna è sempre raffigurata come una dea bendata. Ma non farti ingannare nuovamente dalle parole. La Fortuna è ben-data perché sa perfettamente a chi dare ed a chi no. La Fortuna dà a chi dà, perché essenzialmente lei non dà bensì restituisce. E per chi sta compiendo un viaggio, l’essere fortunati o l’esser privi di fortuna può essere determinante per l’esito dell’Avventura, ancor più quando questo viaggio si svolge dentro noi stessi. Se ci rifletti, noi chiediamo di avere fortuna soprattutto in situazioni di incertezza. Se già avessimo una soluzione a un problema, o se già conoscessimo la via giusta da prendere di fronte ad un bivio, non nutriremmo certo la speranza di essere assistiti dalla dea. Ma mai come in questa epoca, in cui si rendono sempre più necessari senso di responsabilità ed una maggiore consapevolezza della propria condizione interiore, è forse arrivato il tempo di comprendere che la nostra unica speranza per svilupparci, crescere ed evolvere è invece proprio l’imprevisto. E che la sola fortuna che è stata ben-data è proprio l’incertezza che ci costringe a livelli di presenza molto più frequenti nelle nostre vite.”

Mi piace immaginare che in questa storia, oltre alla dea fortuna, ci abbia messo lo zampino anche quella prima luminosa stella cadente che avevo visto qualche notte prima: entrambe impazienti di osservare le fioriture che ci potrà regalare quel campo abbandonato dopo che sarà stato trasformato in giardino sperimentale d’alta quota.

Presto riprenderemo i lavori.

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